Summer school Chiesa e Mafie

Rapporto fra vangelo e mafie dal punto di vista teologico, antropologico e culturale e analizzando nella storia la prassi e il magistero della Chiesa riguardo al fenomeno mafioso

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Rossella Casini

Rossella Casini

La Storia

Rossella Casini non era calabrese, viveva in Borgo La Croce a Firenze con i suoi genitori, il papà operaio Fiat in pensione e la mamma casalinga. Figlia unica e studentessa di psicologia all’università, aveva poco più di vent’anni quando nel 1977 conobbe Francesco Frisina, studente di economia a Siena ma originario di Palmi, in provincia di Reggio Calabria. Era un ragazzo a modo questo Francesco, e Rossella non solo volle presentarlo subito ai suoi genitori ma non vedeva l’ora di andare con lui in Calabria per conoscere quelli che lei sperava potessero diventare i suoi futuri suoceri.

Che ne sapeva lei della ‘ndrangheta? Che ne poteva sapere di una faida antica che lì a Palmi da sempre stava lasciando morti ammazzati per strada? E come potevano dirle qualcosa i nomi dei Gallico o dei Frisina o dei Parrello o dei Condello che erano i nomi di quelle cosche che da sempre da quelle parti si facevano guerra? O meglio, Frisina lo conosceva, era il cognome del suo Francesco, ma come poteva immaginare Rossella che la famiglia del suo ragazzo era una famiglia in odore di ‘ndrangheta?

Ecco perché quando il 4 luglio 1979 a Palmi, in contrada Pirara, due killer uccisero Domenico, il papà di Francesco, per Rossella non fu semplicemente lo svelamento di un mondo che forse non immaginava neanche lontanamente che potesse esistere, ma qualcosa di più: una discesa all’inferno, un baratro fatto di trappole, vendette, ritorsioni e sangue; una cultura di morte che da quelle parti, però, coincideva con un assurdo codice di vita. Com’era lontano il suo mondo!

In quei giorni lei si trovava a Palmi, il suo ragazzo non poteva lasciarlo solo in un momento così difficile, e così decise di far rientrare sua mamma a Firenze e lei invece di rimanere lì in sua compagnia. Voleva incoraggiarlo, voleva sostenerlo, voleva, forse, aiutarlo a uscire da un incubo nel quale purtroppo chiunque può sprofondare quando nella vita all’improvviso si incrocia senza volerlo una folle mano criminale. Come faceva, invece, Rossella a sapere che cinque mesi dopo, il 9 dicembre, a scampare miracolosamente ad un conflitto a fuoco con il clan rivale dei Condello sarà proprio il suo Francesco? Quel giorno lei stava finalmente rientrando a Firenze per riprendere la sua normale vita universitaria, ed invece le arrivò la notizia che il suo ragazzo a Palmi era rimasto gravemente ferito alla testa.

Chissà cosa pensò. Chissà se le si spalancarono finalmente gli occhi. Chissà se capì che l’omicidio di cinque mesi prima non era stato un terribile imprevisto della vita e che questo attentato a Francesco ora aveva un nome preciso e si chiamava mafia. Forse sì. Ed è per questo, forse, che senza pensarci neanche un attimo, appena Francesco fu dimesso dal reparto neurochirurgico degli Ospedali Riuniti di Reggio Calabria se lo portò con sé a Firenze per farlo ricoverare in una clinica specializzata. Certo, per sottoporlo a visite ancora più qualificate, ma soprattutto perché sapeva benissimo che se voleva salvare il loro amore, il suo ragazzo doveva portarlo via al più presto dalla Calabria.

Il suo era un altro mondo. La sua cultura – come scriveranno i giudici del Tribunale di Palmi molti anni dopo – <<era estranea alle logiche e alle dinamiche in cui invece la famiglia Frisina si trovava profondamente inserita>>. Lontani da quell’inferno lei poteva guardare il suo ragazzo negli occhi, farsi raccontare quella vita senza senso, capire meglio quanto lui fosse realmente impastato di quelle regole e di quei codici, e chiedergli di rompere per sempre ogni legame con quell’assurdità.

Francesco iniziò a parlare e Rossella si illuse. A un poliziotto, che la ragazza all’inizio presentò come un cugino, il giovane rampollo dei Frisina cominciò a fare nomi e cognomi, a raccontare di rapine, a descrivere fatti di sangue della faida che da tempo seminava morti per le strade di Palmi, e a confidare chi dei suoi familiari era coinvolto in quelle trame criminali.

E così da un lato le sue parole e dall’altro ciò che la stessa Rossella stava riferendo agli inquirenti, in merito a ciò che lei stessa aveva visto e sentito in quel breve periodo di frequentazione con la famiglia di Francesco: la guerra alle ‘ndrine di Palmi era dichiarata.

Per la giovane ragazza fiorentina non fu difficile, il suo sangue non era sporco, non era contaminato dalle regole dell’onore e dai codici di omertà. Rossella racconta e riporta tutto ciò che sa, come dovrebbe essere normale che sia, come dovrebbe fare chiunque, e come sente fortemente di fare qualunque donna che per amore del proprio uomo è disposta a tutto.

Non così per Francesco. E neanche per la sua famiglia. Per loro i princìpi del silenzio e della fedeltà a quelle regole sono tutto, anzi, il vero problema è proprio la “contiguità” con loro di questa ragazza <<sostanzialmente estranea alle loro regole culturali>>. Il rapporto fra Rossella e Francesco li manda in fibrillazione, li preoccupa, e quando Pino Mazzullo, il cognato di Francesco, marito cioè della sorella, viene a sapere dalla stessa Rossella che il suo fidanzato ha iniziato a collaborare con la giustizia, Pino le dice chiaro e tondo e senza troppi giri di parole che in questo modo Francesco li <<inguaiava tutti>>. Bisognava allora fargli fare marcia indietro, e in realtà non ci volle molto: basteranno pochi mesi di carcere che i due cognati si faranno insieme perché Francesco rimangi tutto quello che aveva iniziato a dire ai magistrati.; ritratta, non ricorda, dichiara finanche <<di non stare bene da un punto di vista psichico>>.

Rossella non demorde. È il 1980. Fa su e giù per la Calabria per capire come strappare il suo ragazzo a quel mondo orribile, arrivando persino a ridimensionare dinanzi agli inquirenti la posizione di Francesco in quei fatti che lei stessa aveva raccontato.

Sta giocando con il fuoco e forse non se ne rende conto.

Se ne accorge invece suo padre, Loredano, che si preoccupa e non poco quando scopre una lettera anonima che a Firenze viene ritrovata sull’automobile della figlia, e quando tra la fine del 1980 e i primi mesi del 1981, Rossella – che nel frattempo era ritornata di nuovo in Calabria – gli fa una serie di telefonate da Palmi durante le quali gli dice che aveva da sistemare alcune ultime cose, che sarebbe rientrata presto e che siccome <<i rapporti con i Frisina non erano più buoni>> aveva trovato una sistemazione da alcuni amici <<nei pressi della tonnara di Palmi>>, in una casa dove però non c’era telefono. E quando il pomeriggio del 22 febbraio sempre al telefono le chiese quando sarebbe tornata a Firenze, la figlia gli disse che stava preparando le valigie, stava per partire.

Quel giorno era di domenica. È stata l’ultima volta che padre e figlia si sono parlati.

Che Rossella si fosse messa in un gioco molto più grande di lei la famiglia Casini lo aveva capito da subito, da quando aveva intuito in che famiglia si era andata a infilare la loro figlia; e che alla fine avesse pagato con la vita queste relazioni così pericolose lo capiscono immediatamente, quando nelle ore e nei giorni successivi alla scomparsa iniziano a scontrarsi con un muro invalicabile di silenzi, bugie, cose dette in modo vago, contraddizioni, omissioni e un mare di omertà. Era come se Rossella non fosse mai esistita, di lei neanche l’ombra, nessuna traccia.

Sua mamma, consumata dal dolore, morirà pochi anni dopo quel 22 febbraio; al papà invece, che non voleva rassegnarsi alla scomparsa della figlia, gli si sbarrarono gli occhi e di certo gli si gelò il sangue nelle vene quando nel luglio del 1994, tredici anni dopo quell’ultima telefonata, sfogliando le pagine di un quotidiano fiorentino legge le dichiarazioni di un pentito siciliano secondo il quale Rossella Casini era stata rapita, violentata, uccisa, fatta a pezzi e gettata in mare al largo della tonnara di Palmi! Una coltellata al cuore, senza che nessuno si fosse preso la benchè minima briga di avvisarlo, senza che nessuno gli avesse detto prima che forse un pizzico di verità sulla figlia stava finalmente per arrivare.

FATE A PEZZI LA STRANIERA, sono le cinque parole con cui Rossella viene condannata a morte.

Fonte: “Lupare rosa. Storie di amore, sangue e onore.” di Marcello Cozzi

Era STRANIERA Rossella. Cioè estranea a quei codici mafiosi, che hanno come punti saldi l’onore, il rispetto, la famiglia, intesa non come focolare sicuro, luogo di condivisione, di bene, ma come gabbia in cui custodire il male, dove gli affari, i soldi e la sete di potere sono gli unici obiettivi da perseguire, anche a discapito della vita. Era estranea a quella subcultura della ‘ndrangheta che minaccia le coscienze e le mette a tacere, che violenta la dignità umana, che considera la donna un suppellettile e i figli dei soldati da addestrare per portare il vessillo dell’onore familiare.

Era FIGLIA UNICA Rossella. Cullata dall’educazione che i suoi genitori le avevano trasmesso e dal contesto sociale e culturale dov’era cresciuta, era una persona libera! Non ha mai accettato compromessi, non ha mai abbassato la testa, neanche difronte ad una delle ‘ndrine più pericolose della Calabria, sfidando da sola il muro di omertà e di silenzi dal quale era circondata, con la sola forza della speranza. Ha deciso di agire sempre con il cuore, di buttare il cuore oltre l’ostacolo per il sentimento più nobile e più puro che possa soffiare nell’animo umano, l’Amore, compimento di quell’humanitas, della quale siamo tutti portatori. 

Era una GIOVANE DONNA Rossella. Fiorentina, capelli biondi e occhi azzurri, bella!!! Una bellezza metafora della perfezione rinascimentale della sua città, patria di geni come Brunelleschi, Leonardo, Botticelli. Il suo viso il ritratto di una Madonna botticelliana: “fiore di velluto, dai lineamenti arcuati, dai lunghi occhi pallidi, sotto il peso di masse d’oro”. Oltre che il suo apparire, anche il suo essere apparteneva a quella bellezza dai canoni estetici regolari, puri, dettati da una quasi rigorosa simmetria; una ragazza perbene che non ha mai avuto dubbi sulla sua identità di donna e di cittadina responsabile. Una testimone di BELLEZZA!

Era una STUDENTESSA Rossella. Amava scoprire le persone, attraverso lo studio della psicologia. Amava conoscere il mondo. Amava quella meravigliosa terra di Calabria, resa maledetta da chi la abita, capace di sfregiarne la cultura e la civiltà. Amava il suo Francesco, al punto tale di essere disposta a tutto, pur di allontanarlo da quel sostrato di arretratezza dov’era nato e cresciuto.

Era un’ERETICA Rossella. Eresia in greco significa “scelta”. E Rossella aveva fatto la sua scelta. Aveva scelto di stare dalla parte del bene, della giustizia, della libertà. Ha avuto il coraggio dell’”eresia dei fatti prima che delle parole”, della coerenza, della responsabilità. Ha scelto di ribellarsi al sonno delle coscienze, alla rassegnazione, all’indifferenza. “Ha avuto il coraggio di avere più coraggio”.

Alla straniera, alla figlia, alla giovane donna, alla studentessa, all’eretica abbiamo deciso di intitolare l’Università della Ricerca, della Memoria e dell’Impegno perché la sua memoria diventi impegno quotidiano per tutti coloro che decideranno di abitare i luoghi della nostra università, per tutti coloro che sceglieranno di educare ed educarsi alla BELLEZZA.

Il 2 giugno 2019 il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, l’ha insignita della medaglia d’oro al valore civile con la seguente motivazione: “Studentessa universitaria fiorentina, legatasi sentimentalmente a un uomo rivelatosi successivamente esponente della malavita calabrese, pur consapevole dei gravi rischi, lottò tenacemente per convincere il fidanzato a troncare ogni legame con il mondo criminale, rivelando all’Autorità giudiziaria quanto appreso dallo stesso sulla cosca di appartenenza”. 

A Rossella e a tutte le vittime innocenti delle mafie!