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Tita Buccafusca

La Storia

Santa Buccafusca, detta Tita, nasce a Nicotera il 7 febbraio del 1974 ed è coniugata con Pantaleone Mancuso, sorvegliato speciale, meglio conosciuto come Luni Scarpuni o anche ‘u biondu, il grande boss, il capo indiscusso dell’omonimo clan che a partire da Limbadi detta legge su tutto il territorio.

Sono le 11,30 del 14 marzo 2011: ha inizio la giornata più lunga per il minuscolo Comando stazione dei carabinieri di Nicotera Marina, piccolo paese del vibonese. I Mancuso si erano sempre vantati di non avere dei “giuda” fra le loro fila, e ora invece lì davanti agli uomini dello Stato a mettere a rischio il loro grande impero criminale non c’è semplicemente un traditore, ma addirittura una donna. Il massimo dell’infamia!

I Mancuso sono al centro di affari sporchi: <<Tutto quello che succede è opera loro – dice la donna – mio marito Pantaleone Mancuso appartiene alla ‘ndrangheta come la gran parte dei suoi parenti maschi>>. Ha paura Tita, ha paura della famiglia, ha paura del marito a causa del male che lui <<e la sua famiglia potrebbero arrecare a mee a mio figlio a causa di questa mia scelta>>. Ed è stanca, scrivono i carabinieri,<<stanca di vivere con questa situazione di continue bugie e stanca di fare del male alla gente>>.

Un passo lo ha già fatto e non può non rendersi conto che da questo momento è davvero difficile tornare indietro, oltre che pericoloso: o firma quei verbali e sparisce per sempre dalla vista e dalla vita dei Mancuso, finalmente proiettata insieme al figlio in una nuova vita dove poter ricominciare tutto daccapo, oppure loro sono costretti a rimandarla a casa, ma senza tutela, senza protezione, senza nessuna sicurezza per la sua vita.

Chissà cosa le passò per la mente. Chissà quale tempesta di dubbi e di domande.

Tornare sotto l’ombra dei Mancuso dopo questo palese gesto di infedeltà, e soprattutto dopo quello che ha riferito ai carabinieri, significa senz’altro condanna a morte. Tita lo conosce quel mondo e sa benissimo che c’è una parola che in quegli ambienti non ha nessun valore, non significa assolutamente niente, e soprattutto quando si ha a che fare con chi ha tradito, o se chi lo ha fatto è una donna e per giunta la donna di un boss: questa parola è perdono. Anzi Tita sa benissimo che in quel mondo l’unica parola che conta si trova sul versante esattamente opposto a quello del perdono, ed è la parola onore.

E lei lo sa che l’onore macchiato si lava solo con il sangue.

<<Che facciamo? Firmi o ti riportiamo a casa?>>, le chiedono. <<Non firmo, non firmo proprio>>, risponde la donna, in maniera serena e con voce pacata. Pantaleone, suo marito, la sta aspettando a casa.

No. Non è malata Tita, e neanche pazza. E’ solo oppressa, schiacciata, sottomessa da una vita che seppure aveva scelto lei, non poteva mai immaginare che un giorno le avrebbe riservato l’abbraccio totalizzante della ‘ndrangheta. Perché questa è la ‘ndrangheta: puoi anche non averla nel sangue, ma se ti entra dentro, e magari con una scelta d’amore, ti prende tutto, ti prende tutta e non ne esci più.

Poi, invece, lo spiraglio che non ti aspetti. Un bambino che viene al mondo e all’improvviso trovi in lui il coraggio che fino a poco tempo prima mai avresti pensato di avere.

Eppure non è bastato.

Cosa ha potuto convincere la Buccafusca a ritornare sui suoi passi?

Sapeva benissimo che una volta rientrata a casa l’inferno di prima non sarebbe stato neanche lontanamente paragonabile a quello di dopo.

Fino a quando la mattina del 16 aprile 2011, esattamente un mese dopo quella fuga nelle braccia dell’Arma, a bussare questa volta alla caserma di Nicotera Marina sarà direttamente il boss Pantaleone Mancuso, per riferire che la moglie aveva ingerito acido muriatico ed era stata ricoverata d’urgenza all’Ospedale di Polistena. Da lì, in giornata, verrà trasportata in ambulanza all’Ospedale civile Riuniti di Reggio Calabria dove morirà nella mattinata del18 aprile, dopo due giorni di straziante agonia. Perché l’acido è così: ti brucia dentro, ti distrugge tutto, ti mangia velocemente e non ti lascia scampo. Proprio come la ‘ndrangheta.

È per questo che si è tolta la vita Tita Buccafusca? Per dire che la mafia ti divora dentro prima ancora che ridurti a brandelli fuori? Che lei ormai era già bruciata tutta e che quindi non aveva più senso vivere?

Si è, dunque, suicidata Tita? O è stata “suicidata” secondo il più classico e consolidato rituale di quel mondo per il quale l’acido è simbolo per antonomasia che “lava” i peccati distruggendo per sempre chi tradisce l’onore della famiglia? È stata forse punita perché rea di un peccato così infamante?

Fino a quando il gelo avvolgerà la morte di Tita Buccafusca?

Fonte: “Lupare rosa. Storie di amore, sangue e onore”, di Marcello Cozzi